Siamo abituati a vedere film e telefilm in cui i criminali di turno vengono interrogati fino a confessare i loro crimini tremendi, siamo abituati alle abili mosse dei detective che smantellano alibi, raccolgono prove minuscole e apparentemente insignificanti smascherando insospettabili piani criminali prima ancora che vengano portati a termine. Un lavoro certosino, spesso basato sui racconti dei testimoni, sulle memorie di persone che erano per caso sulla scena del crimine.

…ma se toccasse a noi?
Se toccasse a noi essere interrogati per ricostruire la dinamica di un evento, saremmo veramente in grado di farlo con precisione?

Nel 1906 Hugo Münsterberg, presidente dell’American Psychological Association, scrisse sul Times Magazine a proposito di un caso di confessione falsa: un giovanotto che ebbe la sfortuna di ritrovare il cadavere di una donna assassinata, nonostante avesse un alibi, a seguito degli interrogatori della polizia non solo ammise l’omicidio, ma ogni volta che ripeteva il racconto esso si arricchiva di dettagli e precisazioni.

Per Münsterberg si trattava chiaramente di un’involontaria elaborazione delle suggestioni alle quali il giovane era stato sottoposto, ma ciò – e il suo alibi – non bastò a risparmiare la forca al ragazzo.

Questo e altri casi di errori giudiziari dovuti a falsi ricordi passarono alla storia prima che la psicologia della testimonianza e gli studi sulla memoria permettessero di comprenderne i meccanismi di formazione sottostanti.

La memoria è malleabile: un processo dinamico attraverso il quale gli eventi si imprimono nella nostra mente in un ricordo che si intreccia ad emozioni, considerazioni razionali e, perché no, informazioni avute in un secondo momento da altre fonti.

Una breve panoramica nell’articolo uscito su the new yorker.