Già la parola “malattia mentale” basta solitamente a far provare una lieve sensazione di disagio, un fastidio non meglio definito.

Alla malattia in qualche modo siamo abituati: tutti abbiamo fatto i conti nella vita (direttamente o indirettamente) con malattie più o meno gravi.
Banalmente tutti abbiamo nel nostro bagaglio di vita la generica e condivisa esperienza dello stare male, del rivolgersi al medico, del rimanere a casa da scuola o dal lavoro, l’esperienza della cura e infine l’esperienza del tornare allo stato di salute iniziale (pensiamo ad esempio all’influenza stagionale).

Nessuno si vergogna di raccontare ad un amico di essere stato fisicamente malato, spesso nemmeno in presenza di malattie “imbarazzanti” ci si vergogna realmente… al punto da farne anche un format televisivo dove le persone raccontano – potenzialmente al mondo intero – di che patologie soffrono!

Perché quindi la malattia mentale è percepita in modo così diverso dalla malattia fisica?

Il disastro aereo della Germanwings ha sconvolto tutto il mondo: se in un primo momento si è temuto per un attacco terroristico, l’emergere della tragica realtà ha scosso nel profondo gli animi di chi attonito cercava di comprendere quanto accaduto.

L’incomprensibilità del gesto del copilota ci impedisce di poter metabolizzare la notizia, perché l’incomprensibilità non ci permette di trovare una causa, un senso, uno scopo, il non comprendere ci lascia inermi: l’incomprensibile ci fa provare ansia, l’incomprensibile fa paura.

L’incomprensibilità spaventa anche più di un gesto malvagio: un gesto malvagio (ma ragionato) può in qualche modo essere “compreso” e questa comprensione ci fa sentire più sicuri, perché in qualche modo ci illude di poterlo prevedere e quindi prevenire.

Al contrario incomprensibile significa imprevedibile.

Tutti in questi giorni stanno tentando di scavare nella vita del copilota della Germanwings per trovare indizi, motivi, cause… tutto alla ricerca di una qualche “logica” in questo gesto che di logico non ha nulla, nel tentativo di tappare il senso di vuoto e di impotenza che questa assurda tragedia ci ha lasciato.

Malattia mentale dunque sembra essere la risposta alla domanda che tutti ci siamo fatti davanti alle drammatiche immagini dei rottami dell’aereo: “perché?”

Il copilota era malato.

Perché quindi non ha seguito le indicazioni mediche? Perché ha volato?
Ci si può fare una serie di domande senza fine, ma non a tutte si riuscirà a dare una risposta certa. Forse non ne sapremo mai abbastanza per poter fare quella che in gergo viene definita “autopsia psichica” a quest’uomo che chiaramente dentro di sé portava una sofferenza sconfinata, ma a questo punto diventa irrilevante.

L’unica cosa davvero rilevante è la paura, la vergogna, la colpa e finanche il fastidio che si prova quando ci si confronta con la “malattia mentale”.

Dire “malattia mentale” apre all’immaginario scenari terribili, fatti di mostri e gesti imprevedibili, sicuramente alimentati dall’ignoranza (nel senso neutro del termine cioè del non conoscere) e dalla creatività di scrittori e registi che negli anni si sono profusi in fin troppo vivide e impressionanti descrizioni di personaggio affetti da malattie mentali.

La malattia fisica è “prevedibile”, spaventa per motivi diversi: per lo più, quando spaventa, spaventa per la prognosi.

La malattia mentale invece è “misteriosa” quindi “imprevedibile” e, pertanto, spaventosa in un modo più ancestrale e profondo.

Il copilota era malato?

Si può dire che la malattia mentale “non esiste”: esiste un continuum tra “normalità” e “patologia” all’interno del quale ognuno di noi oscilla liberamente, all’interno del quale il livello di dolore e sofferenza può aumentare o diminuire.

Si tratta di un dis-equilibrio in cui ognuno di noi può incappare nel corso dell’esistenza: alcuni sono più sensibili, più predisposti, altri sono più resistenti/resilienti; alcuni vivono in contesti favorevoli che in qualche modo favoriscono il mantenimento di un buon equilibrio, mentre altri vivono in contesti che purtroppo favoriscono proprio la perdita di questo loro equilibrio interno.

Il copilota, anche se non sapremo mai cosa gli è passato per la mente, era semplicemente una persona come tante, che in quel momento soffriva enormemente per un grande dis-equilibrio interiore. L’incomprensibilità del suo gesto provoca rabbia e sgomento, e non c’è modo di “giustificarlo” o di poterlo “capire”. Resta solo il dolore.

Ma come lui, lì fuori nel mondo, ci sono tantissime altre persone “normali”, che si vergognano di chiedere aiuto perché hanno paura del giudizio, che si sentono quasi in colpa per il loro malessere, che temono di essere etichettate come “malate mentali” e che per questo si tengono dentro tutta la loro sofferenza.

Nella speranza di non scoppiare, nella speranza di potercela fare da soli… spesso sentendosi per questo sempre più disperati.

Avere il coraggio di parlare di ciò che si sta affrontando o che si è affrontato in passato è un grandissimo atto di maturità, e – per chi ascolta – è un grandissimo atto di umanità capire che la malattia mentale, o meglio dire il disagio e il dis-equilibrio psichico, non sono una cosa di cui avere paura e che nella nostra società non devono essere più un tabù.

Con la speranza di lanciare un messaggio di positività e di apertura, in questo articolo uscito sull’Huffington Post alcune celebrità parlano della loro esperienza personale.